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Immagine del redattoreAnna Barbieri

Gli accordi del carbone – 1946

Una delle rubriche di questo Blog è Artigianato e industria. Non ho ancora scritto molto sul tema, che è però uno dei miei favoriti. Strano che mi capiti di inaugurare la rubrica proprio oggi, parlando di una industria dalle origini antiche, quella mineraria. Non in toni leggeri come sono abituata a fare; ma pur sempre in sintonia con i temi del blog ITINERARI, in questo caso nel tempo, perché è importante la strada che si percorre, ma ancora più importante da dove si viene.

Mi sono ricordata di 20 anni fa, quando a Marzabotto, in provincia di Bologna, ho incontrato un signore, molto anziano, che quando sentì che vivevo in Belgio, mi raccontò che aveva lavorato a Charleroi, nelle miniere. Allora non mi impressionò… non conoscevo molto della storia di Marcinelle, Bois de Caziers o degli altri siti minerari, ma mi ricordo che mi raccontò di un accordo di scambio: manodopera e carbone…

Ora a 70 anni da quegli accordi tra l’Italia ed il Belgio del 1946 chiamati ‘accordo sulle condizioni relative all’invio di manodopera italiana in Belgio ed alle forniture di carbone’, mi torna in mente quel signore.

L’accordo prevedeva : per ogni scaglione di 1000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2500 mensili di carbone, se la produzione mensile sarà inferiore a tonn. 1.750.000; tonn. 3000 se la produzione sarà compresa tra… e.... ecc.

Allora mi sono documentata un po’, tra un film ed un libro, sulla catastrofe di

nel 1956, dieci anni dopo gli accordi del carbone.…







“L’ascensore, è una gabbia lunga che tiene quaranta persone, cinque persone per ogni piano, otto piani di un metro e venti d’altezza, che bisogna starci dentro seduti o piegati sui ginocchi.  Le due gabbie funzionavano insieme, una scende e una monta… Il primo ascensore parte alle 7 e in tre minuti arriva a mille metri, quando è al fondo l’altro è alla superficie con sopra quelli della notte che rientrano.  Per scendere tutto il personale passa mezzora. […] I minatori non si chiamavano di nome, ma di numero”  (La catastrófa – Paolo Di Stefano, Sellerio Editore Palermo, 2011).

Era una città sotterranea con temperature di 40 gradi, con gallerie basse e lunghe, anche qualche kilometro. C’erano stalle per i cavalli, locomotive, binari per i carrelli del carbone. “Il rumore lì sotto al chiuso si sentiva cento volte più forte che all’aria aperta, i macchinari a aria compressa, i motori .. ed anche gli odori e le puzze si sentivano cento volte di più…”

Dovevi lavorare almeno un anno, dopo cinque potevi avere un permesso per fare altri lavori, come in fabbrica. Pagamento a cottimo, quindi per sfuggire alla miseria, si era in competizione anche per fare i doppi turni, per guadagnare un po’ di più. ‘Non ublieremo mai…’ dice uno dei testimoni intervistati nel libro ‘La catastrófa’.

La storia è un cerchio, o una spirale. A futura, ma anche presente, memoria.

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